Del Piero a tutto campo: “Penso alla carriera da allenatore, avrei voluto giocare di più con Totti”

CalcioWeb

L’ex giocatore della Juventus, Alessandro Del Piero, ha ripercorso quella che è stata la sua carriera e, dalle pagine del “Corriere dello Sport”, ha affermato: “Avrei voluto giocare di più con Totti”

In una lunga intervista rilasciata al “Corriere dello Sport”, l’ex numero 10 della Juventus, Alessandro Del Piero, ha ripercorso la sua carriera e,  riferendosi ai sogni futuri, “Pinturicchio” ha ammesso: “Penso alla carriera da allenatore”.
Ecco un estratto dell’intervista
Quando ha capito che sarebbe diventato un calciatore? 
Avevo tredici anni. I miei genitori mi dissero che sarei andato a Padova, per giocare. Da San Vendemiano, dove vivevamo, erano ottanta chilometri. Allora era un viaggio. Mi trovai, bambino, a vivere da solo. Anzi, con altri quattordici ragazzi in un appartamento. Ma senza i genitori. Posso dirle che non ho mai avuto paura. Anzi ero felice di quella avventura. Sapevo che era la strada da percorrere, la mia strada. 
Qual è stato il suo primo numero? 
Il sette. Con quello esordii. E per quello la scelsi al mondiale, e portò fortuna. Nel Padova giocavo molto col nove. Solo dopo ho preso la maglia numero dieci. E’ quella più ambita. Tutti la vorrebbero. E’ il numero che portano i più talentuosi, quelli che uniscono fantasia e genialità, dribbling e visione del gioco. Il dieci è un modo di concepire il calcio. 
Ha tenuto la maglia di Berlino, quando l’Italia vinse il Mondiale? 

Tenuta? Ho tutto il kit: casacca, pantaloncini, calzettoni. E’ uno dei ricordi più belli. Con le maglie consumate dei primi calci, quelle bianche del Padova. Sa, io non sono stato come i giocatori di oggi che cambiano squadra e maglia ogni anno. Io ho avuto tre divise: il San Vendemiano, il Padova e, per diciannove anni, la Juventus. E poi quella della nazionale. Che è un gradino sopra a tutto. E’ di più. 

E tra quelle bianconere quale sceglierebbe ? 

Mah. E’ stato tanto tempo, tante soddisfazioni, tante storie vissute. Forse il primo scudetto, o la prima Champions, la prima coppa intercontinentale. Le prime vittorie sono speciali. Ma ora che ci penso anche la serie B, la caduta e la rinascita e quella dell’ultimo scudetto, quando il cerchio della mia avventura juventina si concluse nel modo più bello. 

Parliamo di quel momento, il suo addio al calcio, almeno in Italia. 

E’ un giorno della vita che non posso, e non voglio, dimenticare. E’ stato devastante, si sono intrecciate emozioni fortissime: gioia, soddisfazione, nostalgia. Era stato un anno difficilissimo per me, avevo giocato poche partite ma segnato gol decisivi e quando uscii dal campo, all’inizio della ripresa, sentii un groppo alla gola. Mi ricordo poco le parole di quel momento. Ma tutto si fermò. I giocatori avversari, l’arbitro, i miei compagni. Il pubblico era tutto in piedi e ci rimase per minuti. Tutti forse ricordavano, in quel momento, le settecento volte che ero sceso in campo con quella maglia e le trecento volte che la palla, su un mio tiro, era entrata in porta. Anche quel giorno, avevo segnato. Loro ringraziavano me delle emozioni che gli avevo fatto vivere per quasi vent’anni. E io, alzandomi sul sedile e salutandoli, dicevo loro il mio grazie. Fu come un tempo sospeso, un magia vera. 

 Lei ora fa il commentatore a Sky. Di allenare non ha mai avuto voglia? 

Tre anni fa avrei detto di no, senza dubbi. Ora ci ragiono. Lo sto analizzando. E’ un lavoro complesso, molto affascinante, che consente di vivere il calcio con una visione. Sia chiaro, non mi sono iscritto a nessun corso. Però se ieri avrei detto no senza alcuna esitazione, ora è per me motivo di riflessione.  

Quali sono le doti che deve avere un buon allenatore? 

Io ho lavorato, più a lungo, con tre grandi: Capello, Ancelotti, Lippi. Con Marcello abbiamo vinto tutto, insieme. In dieci anni scudetti, Champions, Intercontinentale e poi un mondiale. Un rapporto speciale. E mi sono convinto, vivendo con loro, che le doti essenziali siano una grande intelligenza, umiltà e una infinita pazienza. 

Qual è la partita che ricorda con maggior piacere? 

Le dovrei dire, ovviamente, la finale dei Mondiali. E quella lo è davvero, per tutto quello che successe dopo i rigori e il fischio finale. Ma come partita, nel senso di calcio giocato, quella più intensa, travolgente, fu la semifinale con la Germania. Quei supplementari, il gol di Grosso e poi il mio, al termine di un’azione collettiva bellissima. Stavamo battendo una squadra fortissima, in casa sua. Forse quella sera capimmo che potevamo farcela.

Mi mette in ordine di grandezza calcistica Maradona, Baggio, Platini, Pelè? 

Allora: Pelè io non l’ho visto giocare. Anche se lui vide giocare me in una partita dell’Under 17 a Montecatini. Non ho visto neanche Maradona, se non in tv. Platini, per me che sono juventino da bambino, era un mito che camminava. Con Baggio ho giocato. Era un fuoriclasse, un giocatore e una persona di grande qualità. 

Con Totti che rapporto ha?  

Un rapporto di grande stima. Non ci mandiamo gli sms tutti i giorni. Non siamo i tipi. Siamo molto diversi ma per certe cose del carattere molto simili. Le posso dire una cosa: entrambi avremmo voluto e dovuto giocare di più insieme, in nazionale. 

Fu difficile la scelta di seguire la squadra in serie B? 

Sarebbe stato difficile non farlo. Ero il capitano, ero tifoso. La Juve mi aveva dato tantissimo. John Elkann mi chiamò e io gli dissi che poteva contare su di me. Non ho mai avuto ripensamenti e non ho rimpianti per non essere andato a giocare altrove. Le aggiungo che tornare in A e poi rivincere uno scudetto sono state le gioie maggiori della parte finale della mia carriera. 

Chi è stato il collega al quale si è più affezionato e quale quello con cui ha avuto più conflitti? 

Pessotto. E’ un mito. Una persona di una correttezza incredibile. Un uomo fatto di rispetto per gli altri, di dedizione. Ha qualità umane rare. Io sono un tipo chiuso, sto sulle mie, per timidezza. Ma per lui ho davvero grande affetto. Ho litigato con molti, in campo. Mi menavano mica poco. E poi dicevano che erano entrati sulla palla. Uno con cui non andavo d’accordo era Samuel. Ma all’ultima partita che abbiamo giocato ci siamo abbracciati e salutati con amicizia. Tanto per ricordarci che il calcio, in fondo, si chiama “ gioco del calcio.

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