“Football’s coming home”, il calcio torna a casa, ma gli allenatori delle finaliste non sono inglesi: i motivi del dominio brittanico

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Per la prima volta una nazione domina le coppe europee. L’Inghilterra di quest’anno ha riportato il calcio nel Paese in cui è nato: “Football’s coming home” diceva la canzone degli Europei del 1996, giocati nella terra dei Tre Leoni. Per un Inghilterra che esce dall’Europa con la Brexit, ce n’è una che la domina. Tottenham e Liverpool in finale di Champions, Chelsea e Arsenal in quella di Europa League. Sono terminati gli anni di dominazione spagnola quando, Barcellona prima e Real Madrid poi, dominavano la coppa dalle grandi orecchie e il Siviglia portava puntualmente in terra iberica l’Europa League. Il dominio delle inglesi non è fisico come avveniva negli anni 70 e, in parte, negli anni 80. Anzi, il calcio britannico è cambiato molto. E questo lo si deve soprattutto alla scelta di portare in Inghilterra allenatori di altri Paesi. Ormai la Premier è diventata terra di conquista per gli allenatori “stranieri”. Basta guardare la classifica di quest’anno: nelle prime 11 posizioni non troviamo una squadra allenata da un inglese. Il primo britannico è Roy Hodgson (ex Inter) con il suo Crystal Palace. E ai nastri di partenza solo 4 manager erano inglesi (si è poi aggiunto in corsa Scott Parker del Fulham).

Un cambio di mentalità rispetto al passato. In Inghilterra non si adotta più uno stile di gioco “antico”: si è abbandonato il classico centravanti e con palloni lunghi, ma si è adottato un calcio europeo, fatto di tecnica e velocità, pur mantenendo alcuni elementi cardine della scuola inglese. Tutte le squadre finaliste fanno dell’intensità e del cuore le loro principali prerogative. E c’è un elemento che accomuna le quattro finaliste: nessun allenatore inglese. Sarà un caso? Sicuramente no. L’Inghilterra non ha mai avuto una grande tradizione di tecnici, eccezion fatta per Brian Clough (leggendario manager del Nottingham Forest). E non è un caso neanche che solo due allenatori britannici siano riusciti a vincere la Premier dal 1992, quando si chiama così: Sir Alex Ferguson e Kenny Dalglish, entrambi scozzesi. Negli ultimi anni questi tecnici europei hanno dimostrato che anche in Inghilterra si può vincere giocando a calcio, con possesso palla e verticalità.

Quattro finaliste, quattro manager “stranieri”: Klopp (tedesco), Pochettino (argentino), Emery (spagnolo), Sarri (italiano). Sembra il classico inizio di una barzelletta e invece è la pura realtà. Quattro stili di gioco diversi, ma simili. L’esasperazione dell’aggressività del Liverpool di Klopp, il cercare di recuperare palla subito per verticalizzare. Un tedesco sanguigno, trascinante. Un cittadino del mondo come Pochettino, che da calciatore ha girato diverse nazioni, perfezionandosi anche come manager. Uno che si ispira al “Loco” Marcelo Bielsa. Emery, lo specialista dell’Europa League, vinta col Siviglia per tre volte e in finale da quattro edizioni consecutive. Un gioco spregiudicato, che punta più ad offendere che a difendere. Un calcio in stile zemaniano (anche se prendiamo 4 gol ne facciamo 5). Uno che potrebbe portare l’Arsenal a vincere in Europa dopo 22 anni di tentativi andati a vuoto di Wenger. Ultimo, ma non ultimo, Maurizio Sarri a rappresentare l’Italia in queste finali. Uno che ha costruito il suo impianto di gioco sul possesso palla, sul bel gioco già dai tempi della Serie C, perfezionandosi poi con Empoli e Napoli. Certo, ha avuto delle difficoltà in stagione, ma si è ripreso alla grande e ora potrebbe, dopo aver centrato la qualificazione alla prossima Champions, portare in bacheca il primo trofeo. Comunque vadano alla fine le due finali, sicuramente tre trofei internazionali in stagione verranno conquistati dagli inglesi (Europa League, Champions League, Supercoppa Europea). E l’Italia? Per ora sta a guardare. Perché non aprire ai manager stranieri bravi e preparati? Perché insistere con allenatori alquanto sopravvalutati e lasciare a spasso tecnici capaci e competenti?

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