Estate 2004. Walter Mazzarri ha appena vinto il campionato di serie B con il Livorno portando la squadra della sua città nella massima serie 55 anni dopo l’ultima volta, e inizia un’avventura straordinaria in riva allo Stretto con la Reggina di Lillo Foti, dove rimarrà tre anni battendo il record di “longevità” sulla panchina amaranto, tre anni straordinari con tre salvezze culminate nel miracolo del 2007 quando riuscì a salvare la squadra nonostante il pesantissimo fardello dei 15 punti di penalizzazione. Una storia iniziata così, come racconta proprio Mazzarri nel suo libro “Il meglio deve ancora venire” scritto con Alessandro Alciato:
Mi stavano aspettando, Lillo Foti e la moglie. L’ospite arriva sempre dopo. Privacy e pallone, il futuro si costruisce anche così. Al capolinea del mio anno pazzesco a Livorno. Il consiglio non richiesto della gente era unanime: “Adesso vai a lavorare in una piazza del Nord”. Sapevo che la Reggina mi seguiva da tempo, avrei poi scoperto che spediva osservatori in incognito per studiarmi mentre dirigevo gli allenamenti, e allora lo raccontavo a pochi amici fidati, che facevano una faccia strana e reagivano così: “Andare a Reggio Calabria? Ma sei scemo? Ogni volta che lo dicevano, quella soluzione nella mia testa guadagnava punti, diventava la mia preferita. Un’altra sfida considerata impossibile, quindi alla mia portata. Salutai la signora Foti, poi il presidente Lillo, con una premessa: “Dal momento che sono qui davanti a lei dopo avere vinto un campionato, se vuole parlare con me si deve discutere di un contratto biennale. So che alla Reggina è abituato a mandare via gli allenatori dopo pochi mesi, quindi il secondo anno deve essere una garanzia a mio favore, contro l’eventualità di un esonero”.
Se gli avessi tirato uno schiaffo l’avrebbe presa meglio: “Mazzarri, ma io un accordo di ventiquattro mesi non l’ho mai proposto a nessuno”. “Appunto”. “Ma non se ne parla”. “E allora arrivederci”. “No aspetti un attimo…” Erano frasi veloci, una trattativa al confine tra il sì e il no ma, in cuore nostro tutti e due – tutti e tre- sapevamo che sarebbe andata a buon fine. Perché di tanto in tanto nei discorsi inserivamo parole come lavoro, gruppo, fiducia, filosofia, lealtà, concetti che ci piacevano parecchio, l’effetto era quello della Nutella sopra il pane: se non c’è lo mangi lo stesso, se c’è non ne puoi più fare a meno. Il presidente Lillo aveva scelto un allenatore e lo stava corteggiando, proprio davanti alla moglie, con qualche bluff, senza gelosia. “ Lillo vorrei dire una cosa”. La signora Foti dopo quasi due ore e mezza di chiacchiericcio senza via di uscita interruppe il marito, con fare deciso e complice, con l’arte della finta improvvisazione, che nelle donne forti è chiaro indicatore di classe, di intelligenza. “Io credo che sia giusto dargli quello che vuole. Se è bravo come pensiamo, e di questo siamo convinti, penso che la cosa migliore sia accettare la sua richiesta , firmare alle sue condizioni. Due anni, Lillo. Due anni”.
Musica. Musica dolce. Se c’era un giradischi non lo vedevo, era nascosto dentro il buio, però sentivo la melodia, profonda, avvolgente. Cantavo in silenzio, padrone di una carriera sempre meno opaca. Non ho mai capito se fosse un accordo segreto fra di loro, o l’adattamento calabrese del giochino poliziotto buono-poliziotto cattivo, o una partita di ping-pong che finiva sempre allo stesso modo, fatto sta che proprio mentre lui teneva duro, lei se ne uscì con quel diktat. “Facciamogli il contratto che chiede lui, Lillo”. E così andò. Fu un bel dialogo a tre. Si capiva che il presidente era un manager capace e la moglie la sua prima consigliera. Ci siamo dovuti mettere d’accordo sul modello della barca, diciamo cos. Mi strapparono alla concorrenza dandomi ragione. I miei amici commentarono: “Reggio è il posto peggiore per un allenatore esordiente in Serie A”. Un’ altra battaglia pericolosa. E poi già adoravo angoli che dovevo ancora scoprire, percepivo una felicità surreale, provocata da vibrazioni in quel momento sconosciute, oscure, da profumi solo immaginati. Ero innamorato di un’avventuura che doveva ancora iniziare, ubriaco di una nuova realtà, non ancora assaggiata.