Speciale Brasile 2014: analisi del girone H

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Russia – Due anni per cambiare verso e chiudere con la mentalità perdente: questo il tempo impiegato da Fabio Capello per riqualificare una nazionale russa che sembrava avviata verso un ineluttabile ruolo di vittima. Fuori da due mondiali di seguito, umiliata agli Europei in Ucraina due anni fa, la Russia si è gettata nelle braccia del suo salvatore convinta che soltanto un personaggio dal curriculum dell’allenatore friulano sarebbe riuscito a tirarla fuori dal pantano. Il bilancio parla di 17 partite giocate, 10 vittorie, 5 pareggi e soltanto 2 sconfitte. Ma non solo: fatto ancora più importante, il primo posto nel girone di qualificazione, davanti nientemeno che al Portogallo di CR7, il Cristiano Ronaldo Pallone d’Oro a ripetizione, costretto ad andarsi a guadagnare il gettone agli spareggi, eliminando la Svezia di Ibrahimovic. Le premesse per il Mondiale sono dunque ottime affinché la Russia – inserita in un girone possibile, nel quale è favorita insieme con il Belgio – possa approdare agli ottavi. Considerando che i quarti di finale, ottenuti 5 volte, sono stati il suo miglior risultato di sempre (URSS compresa). La rivoluzione di don Fabio, che ha fatto innamorare i russi, arriva come sempre dal grande pragmatismo: valorizzazione dei migliori già affermati, dall’esperto e imponente difensore centrale Ignasevic ai collaudati Zhirkov, Akinfeev, Denisov, al bomber dello Zenit, Kerzhakov. A questi punti fermi ha affiancato il talento emergente di Kokorin ed ha messo da parte senza alcun tentennamento il capitano e potente Arshavin. “Voglio che i miei giocatori arrivino in Brasile con una mentalità vincente – sono le parole di un Capello che come al solito non ama nascondersi – spero che finiremo al primo posto nel girone”. In Russia sono impazziti per lui e nessuno riesce ad immaginare i mondiali 2018, i primi che il paese organizzerà, senza la presenza di don Fabio.

Corea-del-SudCorea del Sud – Lo sguardo truce che il difensore Hong Myung-bo rivolgeva durante i mondiali 2002 agli attaccanti azzurri sul prato dello stadio di Daejeon è ancora quello. Adesso pero’ quegli occhi scrutano il gioco dalla panchina, mentre i suoi “Taeguk”, i Guerrieri, in maglia rossa, correranno come indemoniati. E’ la “solita” Corea del Sud, ormai alla nona partecipazione a una fase finale del torneo iridato, con un carattere e un gioco che ormai non sono più una sorpresa per nessuno. Il “marchio” coreano è stavolta ancora più forte sulla nazionale di Seul, dal momento che è finito il tempo dei ct che venivano dall’occidente, come gli olandesi Hiddink e Advocaat. Adesso anche la panchina è made in Corea. Corsa e collettivo sono sempre le armi preferite dei coreani, anche se ora possono contare sempre di più su giocatori titolari in grandi squadre europee e in grado di regalare più qualità al gioco. Primi di questa categoria sono senz’altro due protagonisti della Bundesliga come Son Heung-min, centrocampista del Bayer Leverkusen, e Koo Jae-cheol, stesso ruolo ma maglia del Magonza. Ricco di esperienza – ben 70 le presenze in nazionale – è anche il capitano e portiere, Jung Sung-ryong, che gioca in K-League, fra i pali del Suwon. Hong, il ct, si è fatto le ossa con l’under 21, ottenendo uno straordinario terzo posto alle Olimpiadi di Londra, ha voluto dare il suo volto alla squadra inserendo i suoi giovani. Primo fra tutti, il difensore Kim Young-won, 24 anni, pallino del Marcello Lippi versione cinese al Guangzhou Evergrande. “Hong – spiega il giovane difensore – ci ha permesso di vincere il bronzo ai Giochi e oggi guida la nazionale, io spero di continuare a imparare con lui, che da noi è una leggenda vivente. In Brasile avremo avversari tutti fortissimi, meglio piazzati di noi nel ranking Fifa. Sarà dura ma tutto dipenderà dalla nostra preparazione e da quello che sapremo dare in campo”. Una qualità, quest’ultima, che ai Taeguk coreani non ha mai fatto difetto.

Belgio – Dodici anni, un’eternità. Tanto tempo è trascorso dall’ultima apparizione ad un Mondiale dei Diavoli Rossi, tanto da lasciare il tempo di maturare un’irresistibile voglia di rivincita. Con il campioncino Hazard e una squadra di ottimi elementi, finiti in un girone equilibrato, i belgi di Marc Wilmots possono guardare agli ottavi e oltre. Era il 2002, mondiali di Corea-Giappone, e un buon Belgio si ritrovò agli ottavi dopo aver giocato un bel girone e fu battuto dai futuri campioni del Brasile. Un 2-0 che ancora scotta, soprattutto a due che fanno parte anche di questa spedizione, 12 anni dopo: Daniel Van Buyten, 36 anni, pilastro del Bayern e…Wilmots. Non solo, infatti, il ct era in campo quel giorno, ma a lui fu annullato un gol regolare nel primo tempo e il buon Marc se l’è legata al dito. Otto vittorie, due pareggi e nessuna sconfitta, 18 gol segnati e soltanto 4 subiti, sono un ruolino di marcia che pochi possono vantare nelle qualificazioni mondiali, e in un girone ostico, con Croazia, Serbia e Scozia. Wilmots, salito in panchina nel 2012, ha scelto il collettivo, la solidità della squadra, sacrificando, quando serve, sprazzi di genialità all’imperativo del bene comune. “Sono subito stato chiaro – racconta – se qualcuno tradisce lo spirito di gruppo, lo sbatto fuori. Chiunque sia. La base è il gruppo, non l’individuo. Chi non lo capisce e decide di fare da solo, perde il posto”. La ricetta-Wilmots è riuscita a creare l’amalgama fra giocatori affermati come Kompany e Fellaini, e i ragazzini della nidiata d’oro guidata da Hazard ma ricca anche del portiere Courtois e del centrocampista de Bruyne. Nonostante “nonno” Van Buyten, la media della squadra è di 24 anni e l’impressione è che guardi al mondiale ma, in prospettiva, anche agli Europei che si giocheranno fra 2 anni vicino a casa, in Francia. “Sarei deluso se non arrivassimo agli ottavi – ammette Wilmots – è il mio primo obiettivo. Superato il girone, devi solo pensare di andare fino in fondo”. Unica vera brutta notizia di questi ultimi tempi, l’infortunio grave al cannoniere dell’Aston Villa, Christian Benteke, rottura del tendine d’Achille che l’ha tenuto fuori dal mondiale. Al suo posto, ancora linea verdissima: è arrivato a sorpresa il centravanti diciannovenne del Lille, Divock Origi.

download (1)Algeria – Una qualificazione aiMondiali strappata agli spareggi contro il Burkina Faso, precedenti per nulla esaltanti (tre partecipazioni e mai arrivati agli ottavi) eppure l’Algeria è in festa. Le Volpi del deserto, i Fennecs, volano in Brasile. In un girone dove non sono certo i favoriti ma dove l’impresa è possibile. Soprattutto se a guidarle c’è una volpe vera, il bosniaco Vahid Halilhodzic. In realtà gli algerini hanno più che festeggiato questa qualificazione, lo stadio Mustapha Tchaker di Blida, a 50 chilometri da Algeri, è diventato una bolgia, tanto da far piangere di commozione anche uno che ne ha viste di tutti i colori come il sessantaduenne Halilhodzic, bosniaco da ct ma jugoslavo quando era giocatore: “proprio un anno esatto prima di quella partita – racconta il tecnico – ho avuto il dolore di perdere mio fratello, una persona che ha contato tantissimo nella mia carriera, colui che mi ha spinto a diventare calciatore. Un anno dopo, al fischio finale, ho rivissuto il mio dramma interiore. Nessuno sapeva niente, e io sono esploso”. Una soddisfazione anche per Vahid sedersi per la prima volta in panchina dopo che a Sudafrica 2010 si era qualificato con la Costa d’Avorio, ricevendo in cambio un esonero a pochi mesi dal mondiale per l’eliminazione ai quarti in coppa d’Africa, ad opera dell’Algeria. Stavolta Vahid non si è fatto cacciare via al momento sbagliato e sarà al suo posto. Potrà contare sull’ondata dei promettenti giovani sbarcati in maglia verde, da Feghouli a Brahimi all’interista Taider, ma punta molto anche sul rilancio di Ghoulam, reduce da un’ottima stagione a Napoli. “Allenare l’Algeria – racconta il tecnico bosniaco – non è un regalo. Ci sono pressioni esterne fortissime, quella del pubblico innanzitutto. Ma a livello di passione, è la cosa più intensa che abbia mai provato”.