“Vincere è l’unica cosa che conta”. Trito e ritrito. A memoria. I tifosi della Juve e non solo. E allora che c’azzecca Sarri? Lo pensavamo la scorsa estate, dopo la sua ufficialità in bianconero. Lo pensiamo a maggior ragione adesso, ad un anno di distanza e con l’addio certificato. La Juve e Sarri non sono mai stati bene insieme. La Juve e il “bel gioco” non sono mai stati bene insieme. Alla Juve, il “bel gioco”, non interessa. Per loro “vincere è l’unica cosa che conta”.
Ci ha provato, potremmo dire. Ma le cose si fanno per bene, oppure non si fanno. Agnelli è stato convinto dai suoi fedelissimi a cambiare ciclo, allenatore, ma anche diktat della società. Voleva ancora “vincere”, ma farlo in modo diverso. Vincere e giocare bene. Si può? Si può, ma ci vuole tempo, pazienza e giocatori giusti. Un club che vuole vincere subito e a tutti i costi come fa? Non fa. E infatti non ha fatto.
In queste ore frenetiche e con tante idee e pensieri in testa, viene da pensare che forse, in realtà, alla Juve, del “bel gioco” non freghi proprio nulla. Anzi, non gliene sia mai fregato nulla. Agnelli viene dalla “vecchia scuola” della famiglia. Quella che gli ha inculcato la mentalità vincente, la vittoria a prescindere da come la si ottiene. E la tradizione in panchina – lo abbiamo rimarcato più volte la scorsa estate in fase di scelta del nuovo allenatore – lo conferma. Trapattoni, Lippi, Capello, Allegri. Sono tra i più vincenti, pragmatici e concreti della storia bianconera. “Bel gioco”? No. Vittorie e successi? Sì, tanti. Loro sono i grandi “gestori”, quelli dal pugno di ferro, quelli adatti alle big con tanti campioni, quelli dalla “giacca e cravatta”.
Sarri? Niente di tutto questo, perlomeno non a queste condizioni. Sarri impone una propria filosofia di gioco a scapito dei risultati, sa valorizzare i giovani, ma non è un vero e proprio “gestore” e ha bisogno di un vestito adatto per rendere bene. In sostanza, non può esistere il “bel gioco” se non si hanno i giocatori per farlo. Lo abbiamo detto in altra pagina, lo ribadiamo qui. Ed è per questo che, stando così le cose, tante delle colpe di tutto ciò non sono sue nonostante l’esonero sembra far passare questo. Lui, in silenzio, ha eseguito gli ordini della società, “costretto” ad imporre la sua identità con i calciatori che “volevano loro”. Pazienza? Sì. Dovrebbe. Di solito alla Juve è così. Questa volta no, ma il motivo probabilmente parte da lontano. Dalla scorsa estate…