Prandelli, i ‘demoni’ e l’addio alla carriera da allenatore: l’episodio durante Samp-Fiorentina

Cesare Prandelli racconta le vicende personali: i motivi dell'addio alla carriera di allenatore

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La carriera di Cesare Prandelli è stata di ottimo livello e il punto più alto è arrivato con la chiamata della Nazionale italiana. Nel corso della carriera ha guidato squadre importanti: Atalanta, Lecce, Verona, Venezia, Parma, Roma, Fiorentina, Galarasaray, Valencia, Al Nasr, Genoa e di nuovo Fiorentina. Il 13 marzo 2023 ha annunciato il ritiro dal calcio, adesso ha svelato tutti i dettagli di quella scelta.

“Sto bene. Avevo bisogno di staccare da quella vita frenetica, un po’ schizofrenica. È stato un momento stregato: gli stadi vuoti, una sensazione di solitudine che mi avvolgeva. Era tutto vuoto, tutto rimbombava troppo. Dovevo mettere un muro tra me e quel silenzio. Ora sto molto bene, seguo sempre il calcio, con passione. Ma non ho pensato neanche per un secondo di tornare ad allenare. Basta, fine”, le dichiarazioni a ‘Il Corriere della Sera’.

Sul futuro: “vorrei fare qualcosa ancora ma non l’allenatore. Mi sono reso conto che ero arrivato: generazioni diverse, gestioni diverse, programmi diversi. Ho avuto la sensazione che qualsiasi cosa proponessi ricevevo parole brutte e stavo sul cavolo a tutti. Sono fuori tempo massimo, probabilmente. Capita”.

Prandelli
Foto di Paolo Magni / Ansa

Il primo disagio durante Sampdoria-Fiorentina, a febbraio 2021: “stavamo dominando la partita poi, verso il settantesimo, ha segnato Quagliarella per loro. In quel momento ho provato una spaventosa sensazione di vuoto. Mi è mancato il respiro per dieci secondi. Credo di conoscere il sapore dell’adrenalina ma una esperienza così non l’avevo mai provata. Un vuoto nero, un gorgo di nulla. Forse il troppo amore per la Fiorentina, il desiderio di strafare, di portarla fuori dai guai.

Ho parlato con le persone che sanno gestire queste situazioni di stress e mi hanno consigliato di staccare un po’. Mi hanno fatto questo esempio: è come un chirurgo che in sala operatoria interviene tutti i giorni ma arriva un familiare e lui si blocca. Il chirurgo non riuscirà più ad operare. Una sensazione così, di troppo affetto, di troppo amore, di troppa responsabilità mi ha tolto il respiro. Era il segnale”. 

“Mi sono ammalato di troppo amore, non è retorica. In quegli stadi vuoti in cui ogni cosa era, insieme, amplificata e silenziosa, avevo perso il riscontro diretto con le cose, sembrava una bolla marziana. E poi io voglio troppo bene alla Fiorentina, non posso vederla soffrire e tantomeno sentirmi responsabile di questa sofferenza. Mi sentivo come quando vedi tuo figlio che sta tentando una cosa e vorresti farla tu ma non sei in grado, perché non puoi farla. Questa è la sensazione che ho avuto. Vuoto e impotenza”. 

Sulla decisione di smettere: “l’ho capito la domenica mattina, la sera avremmo incontrato il Milan. La settimana prima avevamo giocato e vinto a Benevento. Dopo la partita ho detto “Sono stanco, sono vuoto”, pensavo fosse una situazione passeggera. Ma in settimana non era cambiato nulla, tutte le volte che arrivavo agli allenamenti avevo questo senso di disagio. La società mi è stata vicino, i collaboratori anche. Ero io che stavo male, nel profondo. La domenica mattina abbiamo fatto come sempre un allenamento pre-gara. Al mattino, in palestra, c’è stata una situazione, nulla di che, una carenza di concentrazione. Di solito agivo in un certo modo e la superavo. Quel giorno ho fatto due passi e ho sentito ancora quel disagio, sempre più forte. Mi sono riseduto e ho detto basta, è la mia ultima partita in panchina”. 

Sulla morte del padre: “avevo quindici, sedici anni. Quando tanti mi trovano una persona solida, equilibrata, penso sempre che da ragazzo ero uno scapestrato, un teppistello. Ma quando ci siamo trovati a casa con le due mie sorelline e la mamma, senza papà, mi sono improvvisamente trovato ad essere responsabile di qualcuno. Quando sei responsabile di un gruppo di persone o solo dei tuoi familiari secondo me acquisisci delle capacità soprattutto di ascolto. Ormai la gente non ascolta più, sente distrattamente le parole degli altri e capisci, in una conversazione, che magari dicono, spesso di sé stessi, ma non comunicano”. 

Poi il dramma della moglie: “mi sono sentito un privilegiato perché ho potuto scegliere. Tante persone hanno vissuto il mio stesso dramma e non avevano la stessa possibilità, dovevano continuare a lavorare dalla mattina alla sera. Avevamo fatto un patto, con Manuela: se avesse dovuto fare altre cure, più invasive, non l’avrei lasciata da sola. Ho fatto una cosa normale, ma forse oggi la normalità è un’eccezione”. 

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