Intervista della “Gazzetta dello Sport” al bomber del Torino Andrea Belotti, che si racconta tra famiglia, Nazionale e Torino. Inizia parlando dei genitori e del fratello: “È una famiglia bergamasca doc. Prima mio papà lavorava in una fabbrica dove si stampavano agende, libri… Mia mamma era in una fabbrica dove si producevano camicie; si occupava del lavaggio, dello stiraggio. Sempre stati grossi lavoratori. Mio padre a 14 anni faceva il muratore, il piastrellista. Mio nonno era morto presto e papà ha sempre lavorato perché, essendo il più grande di 4 figli, toccava a lui prendersi in carico la famiglia. Mia mamma lavorava in questa stireria però non portava a casa tanti soldi. Arrivava a casa sempre stanca e io, quando tornavo dagli allenamenti, scaricavo sempre panni sporchi. Così come mio fratello, che lavorava in una pizzeria. Quando sono andato via di casa per andare a Palermo l’ho convinta a smettere di lavorare. Con mio papà è stato più difficile perché è la classica persona che in vacanza non sa stare più di tre, quattro giorni fermo“. Ricorda i primi calci: “I primi calci li ho dati al chiuso, nella palestra della scuola. C’erano lì due allenatori per me fondamentali: Fabio Grismondi e Alfredo Donati. Da lì ho fatto due anni a Gorlago dove si giocava alla scuola calcio, poi l’anno dopo invece abbiamo iniziato nel campo dell’oratorio. ho fatto il secondo anno e dopo è arrivata la Grumellese, una squadra di Bergamo che ha preso dal Gorlago quattro ragazzi compreso me. Giocavo da centrocampista centrale. Quando sono andato in Primavera, nell’AlbinoLeffe, c’era un solo attaccante e dovendo trovarne uno in più Alessio Pala ha adattato me in quel ruolo“. Non ha mai nascosto il suo idolo: “Il mio idolo è sempre stato Shevchenko. Non solo per il tipo di giocatore che per me era straordinario. L’ho sempre ammirato perché era un ragazzo che non faceva mai parlare di sé fuori dal calcio, un gran lavoratore, un professionista, dimostrava tutto sul campo e basta. È una cosa che mi ha colpito. E che ho cercato di replicare. Lavorare, più che dire“.
Arriva il Palermo: “Mi ricordo che era d’estate e io ero alla festa di paese. Vieni al centro sportivo dell’AlbinoLeffe perché andiamo a Palermo e devi firmare. Quando sono arrivato c’è stata come un’ovazione. Tutti lo avevano saputo e festeggiavano. Ma in un angolo mi ricordo mia madre che piangeva. Mamma aveva capito che sarei dovuto partire, sarei andato via di casa”. Arriva il Torino: “Ero in Austria in ritiro col Palermo per due settimane e c’era la sosta di Ferragosto. Domani mattina devi partire e andare a Torino, firmiamo e ti alleni”. Mi ricordo che era notte quando ho chiamato il magazziniere e gli ho detto “mi devi preparare le scarpe perché domani me ne vado”. Era sconvolto. Il primo anno con Ventura avevo fatto dodici gol. Però mi ricordo che in tante partite sbagliavo gol, non riuscivo a segnare anche se ero a cinque metri dalla porta o a tu per tu con il portiere. L’anno dopo invece ogni palla veniva a me e facevo gol anche se la prendevo male“. La Nazionale: “Giocare in Nazionale è un sogno, per chiunque. Io non nego che per me è sempre un’emozione incredibile. Quando indosso la maglia azzurra io vivo come un onore il rappresentare la mia nazione. È difficile da spiegare, è un’emozione unica. Per questo spero di tornare e lavoro perché questo accada”. Il futuro: “Lo immagino qui perché sono quattro anni che mi trovo benissimo a Torino”. Infine un ricordo del Grande Torino: “Se lei guarda ai due angoli del loro stadio, ora nostro, vedrà il segno della loro presenza e della storia del Toro. Il Filadelfia oggi è tutto rifatto, tutto ricostruito. Però una cosa ti collega ai tempi passati, ti fa immaginare sul prato Mazzola e Loik, Ossola, Gabetto e tutti gli altri. Quel pezzo di curva dove i tifosi usciti dalla guerra vedevano, in piedi, giocare la squadra più forte del tempo. E forse la più forte di sempre. Ogni volta che entro in campo, mi giro verso quella curva. E penso al Grande Torino e ai suoi campioni”.