Discriminazione territoriale: questo è il nuovo problema del calcio italiano. Fenomeno “nuovo”, soluzione vecchia, medicina di tutti i mali: la chiusura del settore colpevole o in caso dello stadio intero perché la “discriminazione territoriale” è una forma di razzismo. Ma lo è davvero? Fare cori di carattere campanilistico è un reato? Quando e come si passa dal semplice sfottò alla discriminazione vera e propria? E poi, che cosa si intende davvero per discriminazione?
Il risalto mediatico dato alla vicenda è stato straordinario, i media non parlano d’altro. In un paese dove il governo latita, il lavoro fa peggio e la crisi colpisce tutti, il problema imminente è la discriminazione territoriale. In questi giorni abbiamo sentito svariate dichiarazioni da parte dei politici del calcio e di vari addetti ai lavori, molti di loro pronti a mettere all’angolo gli ultras, già ancora loro, il tifo organizzato, ritenuto il male del calcio, ritenuto capace di “rovinare” il clima degli stadi italiani.
Chi in curva non ci è mai stato, chi vede dal di fuori il mondo ultras, non ne conosce mentalità, principi e regole giuste o sbagliate che siano, e probabilmente non ha una visione completa della situazione, così rimane fermo al concetto di ultras come fanatici e violenti, il fenomeno da debellare. Gli ultras a modo loro, in risposta al provvedimento del giudice Tosel, il quale ha approvato la chiusura di San Siro, a causa di recidivi cori campanilistici e razzisti nei confronti dei napoletani da parte della Curva Sud del Milan, nonostante le differenze territoriali appunto, la diversità di fede, uniti dalla stessa mentalità si sono subito mostrati solidali l’un l’altro, arrivando alla promessa di ripetere tutti quanti quei cori incriminati in modo da subire (volontariamente) lo stesso provvedimento riservato alla sud milanese, quindi arrivare ad avere un’assenza di massa da ogni manifestazione sportiva.
A dare voce agli ultras ci ha pensato un avvocato romano, Lorenzo Contucci, noto per le battaglie vinte contro la tessera del tifoso. Il suo argomentato e provocatorio parere sulla vicenda sta facendo il giro del web tramite social e forum soprattutto tra gli ultras, a cui l’avvocato da spazio con una visione diversa, fuori dal coro. Approfondendo in maniera interessante il tema della discriminazione territoriale sotto forma di post che riportiamo per intero:
“Questa volta le curve hanno un’occasione formidabile fornita loro su un piatto d’argento dagli stessi organismi che stanno distruggendo il calcio, su indicazione di Monsieur Platini, quel giocatore che esultava per una coppa dei campioni vinta con 39 morti sugli spalti e che ora viene a dire ai tifosi italiani cosa è giusto e cosa non è giusto fare o dire. Per dirla in una parola: cosa accadrebbe se tutte le curve decidessero di fare cori di un certo tipo per un paio di partite consecutive? Semplice: tutti gli stadi d’Italia dovrebbero essere chiusi, tessere del tifoso o non tessere del tifoso. La vendetta sarebbe servita contro quel sistema che sta snaturando il gioco del calcio per lerci interessi economici. Certo è che, vista la piega che sta prendendo il giuoco, è da folli sottoscrivere un abbonamento per la prossima stagione. Io non lo farò di certo, visto che se mi abbono e poi mi chiudono il settore non posso andare in nessun altro luogo dello stadio per vedere la partita. E se chiudono lo stadio, almeno non ho buttato i soldi. Discriminazione territoriale. Basta intendersi sui termini: cosa significa discriminazione? Lasciamo stare il fatto che abbiamo avuto quale ministro degli Interni un individuo che è l’attuale capo politico di un partito, regolarmente rappresentato in Parlamento, i cui esponenti certo non brillano per tolleranza razziale e/o territoriale perché il tutto rientra nelle logiche di un Paese quale è – purtroppo – l’Italia. Bene, la discriminazione consiste in un trattamento particolare di un individuo, diverso rispetto ad altri individui o gruppi di individui. Volendo esasperare il concetto, se ho la pancia o sono pelato e – per questa ragione – mi viene impedito l’accesso a un cinema o uno stadio: è discriminazione. Se, invece, per strada uno mi urla “A’ pelato demmerda” oppure “a panzone demmerda” (come anche qualsiasi altro tipo di insulto che si basa su particolarismi fisici), si è in presenza – appunto – di un insulto, magari bieco e spregevole ma pur sempre un insulto, non di una discriminazione. Secondo il concetto di colui che esultò con i morti ancora caldi in quel di Bruxelles, “laziale burino” è necessariamente discriminazione territoriale perché sottolinea o allude a una provenienza geografica qualificata in modo spregiativo. Se insulto la mamma del laziale, compio una discriminazione basata sulle preferenze sessuali dell’individuo. Qual è il limite, in un gioco come il calcio che prevede che – in una Italia campanilistica e voluta (purtroppo?) da Garibaldi solo 150 anni fa – una città sfidi l’altra, sportivamente e campanilisticamente? Il termine “discriminazione territoriale” applicato a un coro è un non senso che solo i trogloditi o le persone in malafede non capiscono/non vogliono capire, perché in realtà non si tratta di discriminazione ma di un insulto, basato su ragioni territoriali o, in alcuni casi, razziali. Che i milanisti o gli interisti mi cantino “Romano bastardo” in uno stadio, non mi fa né caldo né freddo: anzi, se vogliamo dirla tutta, mi fa persino piacere.Una discriminazione territoriale, invece, è quella che viene applicata dall’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive e dalla Lega Calcio che vietano l’acquisto di biglietti a persone che risiedono in una regione piuttosto che in un’altra. Questa sì che è pura discriminazione territoriale.”
Avvocato Lorenzo Contucci